Quando ero bambina, e prima ancora che il concetto stesso di “morte” acquisisse nella mia mente dei contorni più o meno nitidi, ricordo perfettamente che ogni qualvolta mi trovassi per caso al cimitero insieme ai miei genitori usavo trotterellare spensierata per i vialetti, sforzandomi di leggere i nomi su ogni lapide e fermandomi a osservare con attenzione le foto su quelle che mi colpivano di più.
All’epoca vedevo quel luogo e quella particolare situazione con curiosità pura, senza che alcun sentimento negativo o malinconico mi sfiorasse soltanto la mente. Anche oggi, non riesco a guardare il cimitero come un luogo triste o inquietante, per quanto sia ormai abbastanza grande da comprenderne la natura effettiva. Al contrario, rimane uno dei luoghi del nostro paese che mi affascinano di più ed uno dei pochi che, paradossalmente, riescono ad infondermi un profondo sentimento di pace. Sono convinta che si tratti di una questione di incontri, incontri con le nostre stesse memorie.
Memorie vicine o lontane nel tempo. Persino quelle mai effettivamente vissute, create a partire dai racconti altrui o da quella stessa foto che troviamo sulla lapide di persone andate via prima che potessero esserci effettivamente care, ma a cui restiamo in ogni caso inspiegabilmente attaccati. Ogni tipo di ricordo che portiamo in offerta ai nostri morti, nelle nostre visite, insieme ai fiori.
Anche quest’anno si avvicina il due novembre, la giornata per eccellenza di calca ai cimiteri, nella speranza che molte più persone, nel portare un fiore e recitare una preghiera, quest’anno possano effettivamente “incontrare” i propri defunti.
